IV Domenica di Pasqua (Anno C)

06 maggio 2022

Beata Vergine del Santo Rosario di Pompei; Sant’Odgero, diacono missionario; San Wirone, vescovo missionario

At 13,14.43-52;
Sal 99;
Ap 7,9.14b-17;
Gv 10,27-30

Noi siamo suo popolo, gregge che egli guida

COMMENTO BIBLICO-MISSIONARIO

Il buon Pastore-Agnello in missione

La quarta domenica di Pasqua è anche chiamata “del Buon Pastore”, e le letture e le preghiere della liturgia sono incentrate proprio su questa bellissima immagine di Gesù. Per questo motivo, dal 1964 per decisione del Papa San Paolo VI, questa domenica è la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, per coloro che hanno ricevuto la chiamata a seguire Gesù, il Sommo Sacerdote e buon Pastore. In questa prospettiva, oggi in molte parrocchie e diocesi del mondo si fa la colletta destinata al fondo di solidarietà universale della Pontificia Opera di San Pietro Apostolo (POSPA) per la formazione dei sacerdoti, religiosi e religiose, attraverso il sostegno dei seminari e noviziati nelle missioni con i loro candidati e formatori. Così, ogni fedele partecipa attivamente, tramite la preghiera e il contributo concreto, alla missione di evangelizzazione della Chiesa nell’ambito specifico della cura per le vocazioni e attività formative dei nuovi buoni sacerdoti-pastori «con l’odore delle pecore» (Papa Francesco, Santa Messa del Crisma, Omelia, Basilica Vaticana, Giovedì Santo, 28 marzo 2013) sulle orme di Cristo buon Pastore.

In tale contesto, le letture della messa di oggi ci aiutano a ribadire e approfondire almeno tre aspetti importanti della missione di Cristo il Pastore, modello ed esempio di tutti i pastori del popolo secondo il desiderio di Dio Padre.

1. La relazione particolare tra Gesù e le sue pecore

Il brano evangelico ascoltato oggi è molto sintetico, ma denso di significato. Rappresenta una specie di riassunto del discorso precedente di Gesù nel Quarto Vangelo attorno alla sua auto-dichiarazione «Io sono il buon pastore» (Gv 10,11.14). Rispondendo ora ai giudei che domandano una manifestazione definitiva dell’identità messianica di Gesù, Egli ribadisce semplicemente una caratteristica fondamentale della relazione tra Lui e le sue pecore: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono» (Gv 10,27). Le parole qui fanno eco a quanto affermato in precedenza da Gesù proprio nella sua autodichiarazione di essere buon pastore, come abbiamo cantato nell’acclamazione prima del Vangelo: «Io sono il buon pastore, [dice il Signore,] conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me» (Gv 10,14).

Va sottolineato subito che il verbo conoscere nel linguaggio biblico-giudaico denota una conoscenza non tanto intellettuale (di un sapere) quanto esistenziale, proprio come nel rapporto tra marito e moglie. Si tratta della conoscenza reciproca intima e integrale, un conoscere che implica un amare e appartenersi l’uno all’altro. Proprio per questo, quando Gesù ha dichiarato di essere buon pastore, ha esplicitato di seguito che «Il buon pastore dà la propria vita per le pecore» (Gv 10,11b.15b). Egli lo fa, perché conosce le sue pecore, vale a dire le ama profondamente, più della sua propria vita.

Inoltre, la conoscenza tra Gesù e le sue pecore viene messa in parallelo con quella tra Gesù e Dio Padre. Egli dichiara, infatti, «conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre» (Gv 10,14b-15). Si mette quindi la relazione tra Gesù buon pastore e i suoi discepoli di fronte a una realtà mistica della conoscenza intima tra le Persone divine. Da un lato, qui si intravede la profondità della conoscenza-amore che Gesù ha per le sue pecore, come quella che Gesù ha per il Padre! Egli effettivamente afferma in un altro luogo: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9). Dall’altro lato, quando Gesù afferma che le sue pecore lo conoscono, ci si può domandare se effettivamente la loro conoscenza per Gesù sia paragonabile a quella tra il Padre e Gesù. Ci sembra di cogliere un invito implicito alle “pecore” di Gesù di interrogarsi sul se e quanto conoscano il loro Pastore e riconoscano la sua voce in mezzo ai rumori tutti attorno. Dato che uno non esaurisce mai tutte le ricchezze del mistero di Cristo, rimane sempre attuale, per le pecore di ogni tempo, l’impegno di crescere sempre di più nella conoscenza del Pastore che le conosce e le ama fino a dare la vita per esse. (Significativo al riguardo il rimprovero di Gesù a Filippo, uno dei suoi intimi discepoli: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo?» (Gv 14,9). Sono parole valide anche per ogni discepolo che lo segue).

A proposito della relazione tra Gesù e le sue pecore, va richiamata infine l’affermazione misteriosa di Gesù stesso che fa però intravedere la sua missione universale: «E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore» (Gv 10,16). Così, Gesù il buon pastore va sempre oltre ogni solito “recinto” per raccogliere e guidare le altre pecore disperse che aspettano la sua voce. Va sempre in missione, seguendo il disegno di Dio rivelato tramite il profeta Isaia sulla vocazione del Servo di Dio: «Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra» (Is 49,6). Sono le parole che gli apostoli di Gesù come Paolo e Barnaba hanno richiamato per cominciare ad annunciare il Vangelo ai pagani (cf. At 13,47), come abbiamo ascoltato nella prima lettura. Erano missionari che continuavano la missione di Gesù buon pastore!

2. Io do loro la vita eterna

Ribadendo la relazione particolare con le sue pecore, Gesù afferma di seguito la sua cura speciale che proviene da tale conoscenza e amore: «Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano» (Gv 10,28). La vita eterna qui menzionata non designa una realtà futura solo dopo la morte. Essa indica la vita in comunione con Gesù e con Dio, la quale comincia già nel presente e continuerà nell’eternità. Tant’è vero che Gesù sottolinea: «In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna» (Gv 6,47). Anzi, «In verità, in verità io vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita» (Gv 5,24). «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna» (Gv 6,54).

Da queste citazioni, soprattutto dall’ultima, emerge un altro aspetto fondamentale della vita eterna che Gesù dona alle sue pecore. Si tratta della sua stessa vita che Egli offre per i suoi, come esplicitato nella dichiarazione del buon pastore menzionata in precedenza. Gesù si è fatto anche agnello sacrificale per donare la propria vita alle sue pecore e per guidarle ora «alle fonti delle acque della vita» (Ap 7,17), come la seconda lettura ci ricorda.

Si tratta quindi del pastore che non solo conosce l’odore delle pecore, ma si è fatto anche una di loro, per condividere con loro tutto della vita (inclusa la morte!). È quanto affermato per la figura di Cristo sommo sacerdote: «non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato» (Eb 4,15).

Tale legame forte tra Gesù buon pastore e le sue pecore sarà la ragione per cui “nessuno le strapperà” (Gv 10,28) dalla sua mano e dalla mano del Padre. Così come san Paolo apostolo esprime lo stesso concetto con parole ispirate commoventi a partire da una domanda retorica: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,35.37-39).

3. “Una cosa sola” con il Padre

Dopo aver ribadito i due aspetti fondamentali del feeling particolare tra Gesù Pastore e le sue pecore, Gesù rivela alla fine la sua unione particolare con Dio Padre: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30).

L’affermazione citata sembra a molti poco attinente al tema del buon pastore finora discusso. Tuttavia, essa risulta in realtà l’apice dell’auto-rivelazione di Gesù riguardante la sua identità in genere, e la sua “missione” di pastore in particolare.

Egli è buon pastore, come Dio è buon pastore del suo popolo (cf., ad es., Ez 34; Sal 22). Si sottolinea l’unità e comunione di operazione, intenzione, amore. E tale unità e comunione Gesù la desidera ora anche per tutti i suoi discepoli-pecore, soprattutto per quelli chiamati, come Pietro e altri, alla missione di pascere e pascolare le sue pecore. Egli, infatti, ha implorato il Padre, «perché [i suoi discepoli] siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa» (Gv 17,22).

Riascoltiamo quindi, in conclusione, questa voce commovente di Cristo, che prega il Padre per noi, sue pecore, per conoscere sempre di più il suo cuore di buon pastore, tutto zelante per la missione del Padre: «[Padre!] Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me» (Gv 17,20-23).

 

Spunti utili:

GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica post-sinodale circa la formazione dei sacerdoti nelle circostanze attuali, Pastores Dabo Vobis

18. Come sottolinea il Concilio, «il dono spirituale che i presbiteri hanno ricevuto nell’ordinazione non li prepara a una missione limitata e ristretta, bensì a una vastissima e universale missione di salvezza sino agli ultimi confini della terra, dato che qualunque ministero sacerdotale partecipa della stessa ampiezza universale della missione affidata da Cristo agli apostoli». Per la natura stessa del loro ministero, essi debbono dunque essere penetrati e animati di un profondo spirito missionario e «di quello spirito veramente cattolico che li abitua a guardare oltre i confini della propria diocesi, nazione o rito, e ad andare incontro alle necessità della Chiesa intera, pronti nel loro animo a predicare dovunque il Vangelo».

23. (…) Il dono di sé, radice e sintesi della carità pastorale, ha come destinataria la Chiesa. Così è stato di Cristo che «ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei»; così dev’essere del sacerdote. Con la carità pastorale che impronta l’esercizio del ministero sacerdotale come «amoris officium», «il sacerdote, che accoglie la vocazione al ministero, è in grado di fare di questo una scelta di amore, per cui la Chiesa e le anime diventano il suo interesse principale e, con tale spiritualità concreta, diventa capace di amare la Chiesa universale e quella porzione di essa, che gli è affidata, con tutto lo slancio di uno sposo verso la sposa». Il dono di sé non ha confini, essendo segnato dallo stesso slancio apostolico e missionario di Cristo, del buon Pastore, che ha detto: «E ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore».

32. L’appartenenza e la dedicazione alla Chiesa particolare non rinchiudono in essa l’attività e la vita del presbitero: queste non possono affatto esservi rinchiuse, per la natura stessa sia della Chiesa particolare sia del ministero sacerdotale. Il Concilio scrive al riguardo: «Il dono spirituale che i presbiteri hanno ricevuto nell’ordinazione non li prepara a una missione limitata e ristretta, bensì ad una vastissima e universale missione di salvezza, "fino agli ultimi confini della terra”, dato che qualunque ministero sacerdotale partecipa della stessa ampiezza universale della missione affidata da Cristo agli apostoli».

Ne deriva che la vita spirituale dei sacerdoti dev’essere profondamente segnata dall’anelito e dal dinamismo missionario. Tocca loro, nell’esercizio del ministero e nella testimonianza della vita, plasmare la comunità loro affidata come comunità autenticamente missionaria. Come ho scritto nell’enciclica «Redemptoris Missio», «tutti i sacerdoti debbono avere cuore e mentalità missionaria, essere aperti ai bisogni della Chiesa e del mondo, attenti ai più lontani e, soprattutto, ai gruppi non cristiani del proprio ambiente. Nella preghiera e, in particolare, nel sacrificio eucaristico sentano la sollecitudine di tutta la Chiesa per tutta l’umanità».

Se questo spirito missionario animerà generosamente la vita dei sacerdoti, sarà facilitata la risposta a quell’esigenza sempre più grave oggi nella Chiesa che nasce da una diseguale distribuzione del clero. In questo senso già il Concilio è stato quanto mai preciso e forte: «Ricordino i presbiteri che a loro incombe la sollecitudine di tutte le Chiese. Pertanto i presbiteri di quelle diocesi che hanno maggior abbondanza di vocazioni si mostrino disposti ad esercitare volentieri il proprio ministero, previo il consenso o l’invito del proprio ordinario, in quelle regioni, missioni o opere che soffrano di scarsezza di clero».

GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica post-sinodale sul Vescovo servitore del Vangelo di Gesù Cristo per la speranza del mondo, Pastores Gregis

22. (…) La comunione nella sua sorgente e nel suo modello trinitari si esprime sempre nella missione. La missione è il frutto e la conseguenza logica della comunione. Si favorisce il dinamismo della comunione quando ci si apre agli orizzonti e alle urgenze della missione, garantendo sempre la testimonianza dell’unità affinché il mondo creda, e dilatando gli spazi dell’amore affinché tutti raggiungano la comunione trinitaria, dalla quale procedono e alla quale sono destinati. Quanto più è intensa la comunione, tanto più è favorita la missione, specialmente quando è vissuta nella povertà dell’amore, che è la capacità di muoversi incontro ad ogni persona, gruppo e cultura con la sola forza della Croce, spes unica e testimonianza suprema dell’amore di Dio, che si manifesta anche come amore di fraternità universale.

66. Nella Sacra Scrittura la Chiesa è paragonata ad un gregge, «di cui Dio stesso ha preannunciato di voler essere il pastore e le cui pecore, anche se governate da pastori umani, sono però incessantemente condotte al pascolo e nutrite dallo stesso Cristo, il Pastore buono e il Principe dei pastori». Non è forse Gesù stesso a qualificare i suoi discepoli come pusillus grex e ad esortarli a non avere paura, ma a coltivare la speranza? (cfr Lc 12, 32). Questa esortazione Gesù l’ha ripetuta più volte ai suoi discepoli: «Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!» (Gv 16, 33). Quando stava per tornare al Padre, dopo avere lavato i piedi agli Apostoli, disse loro: «Non sia turbato il vostro cuore» e aggiunse: «Io sono la Via [...] Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14, 1-6). Su questa Via, che è Cristo, il piccolo gregge, la Chiesa, si è incamminata, e a guidarla è Lui, il Pastore Buono, che «quando ha condotto fuori tutte le sue pecore, cammina innanzi a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce» (Gv 10,4).

Ad immagine di Cristo Gesù e sulle sue orme, anche il Vescovo esce per annunziarlo al mondo come Salvatore dell’uomo, di ogni uomo. Missionario del Vangelo, egli agisce in nome della Chiesa, esperta in umanità e vicina agli uomini del nostro tempo. Per questo il Vescovo, forte del radicalismo evangelico, ha pure il dovere di smascherare le false antropologie, di riscattare i valori schiacciati dai processi ideologici e di discernere la verità. Egli sa di poter ripetere con l’Apostolo: «Noi ci affatichiamo e combattiamo, perché abbiamo riposto la nostra speranza nel Dio vivente, che è il Salvatore di tutti gli uomini, ma soprattutto di quelli che credono» (1 Tim 4, 10).

L’azione del Vescovo, allora, sarà caratterizzata da quella parresía, che è frutto dell’operazione dello Spirito (cfr At 4, 31). Sicché, uscendo da se stesso per annunciare Gesù Cristo, il Vescovo assume con fiducia e coraggio la sua missione, factus pontifex, fatto veramente «ponte» proteso verso ogni uomo. Con passione di pastore egli esce per cercare le pecore, al seguito di Gesù, che dice: «Ho altre pecore che non sono di quest’ovile; anche queste io devo condurre».

PAOLO VI, Radiomessaggio per la I Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni, Sabato, 11 aprile 1964

«Pregate il padrone della messe, affinché mandi operai» per la sua Chiesa (cfr. Mt. 9, 38).

Lanciando lo sguardo ansioso sulla sterminata distesa di campi spirituali verdeggianti, che in tutto il mondo attendono mani sacerdotali, sgorga dall’animo l’accorata invocazione al Signore, secondo l’invito di Cristo. Sì, oggi come allora, «la messe è copiosa, ma gli operai sono pochi» (ibid. 9, 37): pochi, in confronto delle accresciute necessità della cura pastorale; pochi, di fronte alle esigenze del mondo moderno, ai suoi fremiti di inquietudine, ai suoi bisogni di chiarezza e di luce, che richiedono maestri e padri comprensivi, aperti, aggiornati; pochi, ancora, di fronte a coloro, i quali, sebbene lontani, indifferenti, o ostili, pur vogliono nel sacerdote un modello vivente irreprensibile della dottrina, ch’egli professa. E soprattutto scarseggiano queste mani sacerdotali nei campi di missione, ovunque ci siano uomini e fratelli da catechizzare, da soccorrere, da consolare.

La presente domenica, che nella Liturgia Romana prende dal Vangelo il nome del Buon Pastore, veda dunque unite in un unico palpito di preghiera le schiere generose dei cattolici di tutto il mondo, per invocare dal Signore gli operai necessari alla sua messe.