IV Domenica del Tempo di Quaresima (Anno A)

16 marzo 2023

1Sam 16,1b.4.6-7.10-13;
Sal 22;
Ef 5,8-14;
Gv 9,1-41

Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla

COMMENTO BIBLICO-MISSIONARIO

La missione di Cristo-Luce

«La IV Domenica di Quaresima è soffusa di luce, una luce evidenziata in questa Domenica “Laetare” [“Rallègrati!”] dalle vesti liturgiche di sfumatura più chiara e dai fiori che adornano la chiesa» (Direttorio omiletico n.73). In tale contesto di gioia per “la Pasqua ormai vicina”, abbiamo ascoltato il vangelo della guarigione di un uomo cieco dalla nascita che, come già rilevato nel nostro commento precedente, forma insieme con i brani evangelici della Samaritana (domenica scorsa) e della risurrezione di Lazzaro (prossima domenica) il trittico quaresimale per una (ri)scoperta del dono del battesimo, come sottolineato nei commenti liturgici. Così, «il tema di base, in queste tre domeniche, concerne il modo in cui la fede va continuamente alimentata nonostante il peccato (la Samaritana), l’ignoranza (il cieco) e la morte (Lazzaro). Sono questi i “deserti” che attraversiamo nel corso della vita e nei quali scopriamo di non essere soli, perché Dio è con noi» (Direttore Omiletico 69).

Ancora una volta, tenendo presente una tale impostazione liturgica come pure la ricchezza enorme dell’assai lungo brano evangelico odierno, entriamo solo in alcuni dettagli che ci aiutano ad approfondire il mistero della missione di Cristo per ravvivare la nostra fede in Lui e il nostro zelo missionario, “seguendo le sue orme”. Seguiamo la struttura tripartita del racconto che si presenta come un dramma a tre atti per descrivere magistralmente il cammino del nato cieco verso la vista piena: dal recupero della vista materiale al vedere e credere in Gesù come “Figlio dell’uomo” e Signore. Si tratta del percorso che noi tutti battezzati siamo chiamati a compiere insieme ai catecumeni, in questa Quaresima, per riscoprire l’essenza della nostra fede e della missione in Cristo.

1. L’incontro “casuale” con il cieco e le azioni misteriose di Gesù medico e “luce del mondo”

Tutta la storia con l’uomo nato cieco sembra cominciata da un fatto “en passant”. In effetti, come l’evangelista racconta, «[Nel tempio di Gerusalemme] Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita». Nondimeno, come sottolineato già nel commento sull’episodio della Samaritana, per Gesù e i suoi discepoli missionari tutto avviene secondo il piano di Dio per la salvezza dell’umanità. Nella loro vita non accadrà niente per caso. Ogni incontro con le persone sarà sempre l’occasione propizia per entrare in contatto con esse e per trasmettere il messaggio dell’amore di Dio e il Vangelo di Cristo nella concreta situazione in cui vivono. Sarà sempre il momento opportuno (anche con tutta l’inopportunità del caso!) per una conversazione più approfondita sulla missione ed identità di Cristo. La domanda fondamentale per noi, suoi discepoli moderni, è se abbiamo la stessa coscienza di Gesù per la missione, lo stesso suo senso di responsabilità per la salvezza dell’anima (anzi di tutte le anime!) e lo stesso suo coraggio dell’annuncio e dell’azione.

In questa prospettiva, l’incontro con il cieco nato sarà l’occasione, affinché «in lui siano manifestate le opere di Dio» con le azioni concrete di Gesù che si rivela così medico divino e donatore di luce ai ciechi. Al riguardo, vanno rimarcate e chiarite le strane ma significative particolarità dell’agire di Gesù. Anzitutto, Egli «sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco». Tale gesto particolare nell’uso della propria saliva riflette in realtà la pratica dei medici di allora. Gesù la usò anche per risanare un sordomuto (cf. Mc 7,33: «[Gesù] con la saliva gli toccò la lingua»), o ancora nella guarigione di un altro cieco a Betsàida (cf. Mc 8,23: «[Gesù] dopo avergli messo della saliva sugli occhi, gli impose le mani»). Tuttavia, singolare nel nostro brano odierno è la “combinazione” della saliva con la terra per ottenere il “fango” da mettere sugli occhi del “paziente”. Senza entrare troppo nel dibattito plurisecolare sul possibile senso materiale o spirituale di tale azione, possiamo domandarci se si può intravedere qui un richiamo sottile al “fango” primordiale nella creazione del primo uomo. Il cieco nato diventa l’immagine eloquente dell’essere umano acciecato a causa del peccato di “uno” (Adamo, che significa letteralmente “uomo”); egli adesso sta passando con Gesù il processo della nuova creazione per riacquistare la vista che Dio ha donato all’origine.

Inoltre, rispetto agli altri miracoli, anche il comando di Gesù al cieco per completare la guarigione sarà unico e misterioso: «gli disse: “Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe”». Il senso recondito di quest’ordine viene suggerito proprio dall’evangelista stesso che spiega subito «Sìloe, “che significa “Inviato”». Ora, se Gesù è l’Inviato del Padre per salvare il mondo con il dono dell’“acqua viva”, come abbiamo sentito anche nell’episodio della Samaritana, il lavarsi nella piscina di Sìloe non sarà appunto l’immagine del lavaggio nell’”acqua” di Gesù, Inviato di Dio?

Va sottolineato che per completare la guarigione, è stata fondamentale la collaborazione del cieco stesso che doveva andare a lavarsi nella piscina indicata. Personalmente, mi ha colpito la “cieca” obbedienza dell’uomo al comando di Gesù, senza brontolare o protestare per le possibili difficoltà del percorso, dal luogo dell’incontro con Gesù alla piscina di Sìloe, soprattutto per un non-vedente come lui! (Per chi ha visitato Gerusalemme, questo tratto di strada dal Monte del Tempio alla piscina di Sìloe è circa 30 minuti a piedi e sempre in discesa; ciò richiede massima attenzione per non cadere). In quest’ottica, il cammino obbediente del cieco diventa un forte invito a tutti noi a compiere lo stesso atto “eroico”, superando le varie avversità della vita per arrivare o ritornare alla sorgente della vita nuova, tramite l’immersione, vale a dire il battesimo, nell’acqua di «Sìloe, “che significa “Inviato”».

2. L’interrogatorio dei giudei e la testimonianza del cieco guarito

In seguito alla guarigione, ha luogo un “processo” dei farisei/giudei al cieco guarito che l’evangelista Giovanni racconta con una buona dose di ironia tramite vari elementi “comici” per far esaltare l’impotenza imbarazzante dei farisei/giudei di allora di fronte alla costatazione del fatto da parte del cieco e di fronte alla sapienza-acutezza dei suoi genitori («Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé»). Dietro però questo modo di raccontare si può intravedere proprio l’aspetto gioioso della testimonianza cristiana che è un semplice confessare la nuova vita donata da Cristo. Il cieco guarito, in effetti, affermava semplicemente alla gente quanto gli era accaduto: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». Egli ripeterà ancora ai farisei: «[Gesù] mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo»; e ancora, per la terza volta, ai giudei che accusavano Gesù come peccatore: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Dopo questa testimonianza finale, il cieco, probabilmente divertito, continuò con una domanda ironica: «Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?».

Tale testimonianza del cieco, della sua verità, ha avuto una forza incontrastabile, perché è stata fatta con sincerità e fedeltà; e questo malgrado la conoscenza ancora parziale della persona di Gesù suo guaritore. Si tratta di un cammino della fede che il cieco ha percorso: dal “vedere” Gesù come uomo al pensare a Lui come un profeta e, infine, al credere in Lui come Figlio dell’uomo–Signore, culminando con il gesto dell’adorazione-adesione alla fede: «e si prostrò dinanzi a lui». Questo sarà il percorso da ripercorrere anche da tutti noi, suoi discepoli-missionari, per poter, già strada facendo, testimoniare agli altri con semplicità quanto il Signore ha fatto nella nostra vita, come il cieco guarito di oggi. «Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Non saranno mai la stessa cosa la vita con Gesù con il suo dono della piena vista e quella senza conoscerLo. Ricordiamoci a proposito delle parole importanti di Papa Francesco all’inizio del suo pontificato, il cui decimo anniversario si è celebrato in questi giorni:

In ogni caso, tutti siamo chiamati ad offrire agli altri la testimonianza esplicita dell’amore salvifico del Signore, che al di là delle nostre imperfezioni ci offre la sua vicinanza, la sua Parola, la sua forza, e dà senso alla nostra vita. Il tuo cuore sa che la vita non è la stessa senza di Lui, dunque quello che hai scoperto, quello che ti aiuta a vivere e che ti dà speranza, quello è ciò che devi comunicare agli altri. La nostra imperfezione non dev’essere una scusa; al contrario, la missione è uno stimolo costante per non adagiarsi nella mediocrità e per continuare a crescere. La testimonianza di fede che ogni cristiano è chiamato ad offrire, implica affermare come san Paolo: «Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla ... corro verso la mèta» (Fil 3,12-13). (Evangelii Gaudium 121)

3. Le dichiarazioni finali di Gesù per un serio esame di “vista” (i.e. di coscienza)

Ciò che mi colpisce particolarmente è la dichiarazione di Gesù verso la fine del racconto. Dopo aver rivelato la sua identità al cieco nato (già guarito) e ricevuto l’omaggio di quest’ultimo, Gesù dichiara di essere venuto in questo mondo, «perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi» (Gv 9,39). Non si tratta qui ovviamente della volontà di Gesù di accecare qualcuno (tant’è vero che Egli non ha fatto male a nessuno!). È la costatazione (alla maniera dei profeti) di un triste fatto: ci sono quelli che, pur avendo vista, non “vedono” Gesù in quanto figlio di Dio in mezzo a loro. Di conseguenza, non riescono a vedere chiaramente l’insegnamento di Dio da seguire e i propri peccati da abbandonare. Infatti, come si racconta successivamente nel Vangelo, i farisei “udirono queste parole” di Gesù e “gli dissero” ironicamente: «Siamo ciechi anche noi?» (Gv 9,40). A questo Gesù rispose con tutta serietà, perché si tratta effettivamente di una questione di vita o di morte dell’anima: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane» (Gv 9,41).

Ci troviamo di fronte ad un forte monito contro il pericolo di cecità spirituale per coloro che si vantano di “vedere tutto” ma vivono, in realtà, nelle tenebre perenni. Ciò richiama un detto enigmatico di Gesù sulla luce degli occhi: «La lampada del corpo è l’occhio; perciò, se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!» (Mt 6,22-23). Questo è veramente un grande pericolo: pensi di avere la luce, ma vivi nelle tenebre! Alla luce di quanto rilevato, si può comprendere meglio la lode apparentemente “paradossale” di Gesù al Padre: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25; Lc 10,21). Dio vuole rivelare a tutti tutte le cose in Gesù, solo che i “sapienti e dotti” del mondo (e purtroppo di ogni tempo!) nel loro orgoglio non vogliono vedere ed accogliere le “cose divine” di e in Gesù. Solo “i piccoli” nella loro piccolezza accolgono con gioia la nuova “vista” donata da Lui.

Perciò, si può intravedere un suggerimento nella lotta contro la cecità spirituale: “riconoscersi ciechi” come il cieco nato. Cosa significa questo concretamente? Forse abbiamo bisogno di spogliarci un po’ della superbia per crescere ancora nell’umiltà davanti a Dio e a Cristo, riconoscendoci sempre bisognosi della purificazione spirituale. In questo ci può aiutare la stessa Parola di Dio che offre una bella preghiera sincera ed ispirata del Salmista da ripetere più di frequente in questi giorni: «[O Dio] Le inavvertenze, chi le discerne? / Assolvimi dai peccati nascosti. / Anche dall’orgoglio salva il tuo servo / perché su di me non abbia potere; / allora sarò irreprensibile, / sarò puro da grave peccato» (Sal 19,13-14).

«Svégliati, tu che dormi, / risorgi dai morti [dai peccati] e Cristo ti illuminerà» (Ef 5,14). Amen.

 

Spunti utili:

Papa Francesco, Angelus, Piazza San Pietro, IV Domenica di Quaresima (Laetare), 26 marzo 2017

Al centro del Vangelo di questa quarta domenica di Quaresima si trovano Gesù e un uomo cieco dalla nascita (cfr Gv 9,1-41). Cristo gli restituisce la vista e opera questo miracolo con una specie di rito simbolico: prima mescola la terra alla saliva e la spalma sugli occhi del cieco; poi gli ordina di andare a lavarsi nella piscina di Siloe. Quell’uomo va, si lava, e riacquista la vista. Era un cieco dalla nascita. Con questo miracolo Gesù si manifesta e si manifesta a noi come luce del mondo; e il cieco dalla nascita rappresenta ognuno di noi, che siamo stati creati per conoscere Dio, ma a causa del peccato siamo come ciechi, abbiamo bisogno di una luce nuova; tutti abbiamo bisogno di una luce nuova: quella della fede, che Gesù ci ha donato. Infatti quel cieco del Vangelo riacquistando la vista si apre al mistero di Cristo. Gesù gli domanda: «Tu credi nel Figlio dell’uomo?» (v. 35). «E chi è, Signore, perché io creda in lui?», risponde il cieco guarito (v. 36). «Lo hai visto: è colui che parla con te» (v. 37). «Credo, Signore!» e si prostra dinanzi a Gesù.

Questo episodio ci induce a riflettere sulla nostra fede, la nostra fede in Cristo, il Figlio di Dio, e al tempo stesso si riferisce anche al Battesimo, che è il primo Sacramento della fede: il Sacramento che ci fa “venire alla luce”, mediante la rinascita dall’acqua e dallo Spirito Santo; così come avvenne al cieco nato, al quale si aprirono gli occhi dopo essersi lavato nell’acqua della piscina di Siloe. Il cieco nato e guarito ci rappresenta quando non ci accorgiamo che Gesù è la luce, è «la luce del mondo», quando guardiamo altrove, quando preferiamo affidarci a piccole luci, quando brancoliamo nel buio. Il fatto che quel cieco non abbia un nome ci aiuta a rispecchiarci con il nostro volto e il nostro nome nella sua storia. Anche noi siamo stati “illuminati” da Cristo nel Battesimo, e quindi siamo chiamati a comportarci come figli della luce. E comportarsi come figli della luce esige un cambiamento radicale di mentalità, una capacità di giudicare uomini e cose secondo un’altra scala di valori, che viene da Dio. Il sacramento del Battesimo, infatti, esige la scelta di vivere come figli della luce e camminare nella luce. Se adesso vi chiedessi: “Credete che Gesù è il Figlio di Dio? Credete che può cambiarvi il cuore? Credete che può far vedere la realtà come la vede Lui, non come la vediamo noi? Credete che Lui è luce, ci dà la vera luce?” Cosa rispondereste? Ognuno risponda nel suo cuore.

Dai «Trattati su Giovanni» di Sant’Agostino, vescovo (Trattato 34, 8-9; CCL 36, 315-316)

Il Signore in maniera concisa ha detto: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8, 12), e con queste parole comanda una cosa e ne promette un’altra. Cerchiamo, dunque, di eseguire ciò che comanda, perché altrimenti saremmo impudenti e sfacciati nell’esigere quanto ha promesso. […]

Dunque mettiamoci subito all’opera, seguiamo il Signore: spezziamo le catene che ci impediscono di seguirlo. Ma chi potrà spezzare tali catene, se non ci aiuta colui al quale fu detto: «Hai spezzato le mie catene»? (Sal 115, 16). […]

Che cosa seguono quelli che sono stati liberati e rialzati, se non la luce dalla quale si sentono dire: «Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre»? (Gv 8, 12). Sì, perché il Signore illumina i ciechi. O fratelli, ora i nostri occhi sono curati con il collirio della fede. Prima, infatti, mescolò la sua saliva con la terra, per ungere colui che era nato cieco. Anche noi siamo nati ciechi da Adamo e abbiamo bisogno di essere illuminati da lui. Egli mescolò la saliva con la terra: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14). Mescolò la saliva con la terra, perché era già stato predetto: «La verità germoglierà dalla terra» (Sal 84, 12) ed egli dice: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14, 6).

Godremo della verità, quando la vedremo a faccia a faccia, perché anche questo ci viene promesso. […]

Questa è la grande promessa. Se lo ami, seguilo. Tu dici: Lo amo, ma per quale via devo seguirlo? […] Ascolta il Signore che ti dice in primo luogo: Io sono la via. Prima di dirti dove devi andare, ha premesso per dove devi passare: «Io sono», disse, «la via»! La via per arrivare dove? Alla verità e alla vita. Prima ti indica la via da prendere, poi il termine dove vuoi arrivare. […] Rimanendo presso il Padre, era verità e vita; rivestendosi della nostra carne, è diventato la via.

[…] La via stessa è venuta a te e ti ha svegliato dal sonno, se pure ti ha svegliato. Alzati e cammina!

Forse tu cerchi di camminare, ma non puoi perché ti dolgono i piedi. Per qual motivo ti dolgono? Perché hanno dovuto percorrere i duri sentieri imposti dai tuoi tirannici egoismi? Ma il Verbo di Dio ha guarito anche gli zoppi.

Tu replichi: Sì, ho i piedi sani, ma non vedo la strada. Ebbene, sappi che egli ha illuminato perfino i ciechi.

Papa Francesco, Esortazione Apostolica sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, Evangelii Gaudium

121. Certamente tutti noi siamo chiamati a crescere come evangelizzatori. Al tempo stesso ci adoperiamo per una migliore formazione, un approfondimento del nostro amore e una più chiara testimonianza del Vangelo. In questo senso, tutti dobbiamo lasciare che gli altri ci evangelizzino costantemente; questo però non significa che dobbiamo rinunciare alla missione evangelizzatrice, ma piuttosto trovare il modo di comunicare Gesù che corrisponda alla situazione in cui ci troviamo. In ogni caso, tutti siamo chiamati ad offrire agli altri la testimonianza esplicita dell’amore salvifico del Signore, che al di là delle nostre imperfezioni ci offre la sua vicinanza, la sua Parola, la sua forza, e dà senso alla nostra vita. Il tuo cuore sa che la vita non è la stessa senza di Lui, dunque quello che hai scoperto, quello che ti aiuta a vivere e che ti dà speranza, quello è ciò che devi comunicare agli altri. La nostra imperfezione non dev’essere una scusa; al contrario, la missione è uno stimolo costante per non adagiarsi nella mediocrità e per continuare a crescere. La testimonianza di fede che ogni cristiano è chiamato ad offrire, implica affermare come san Paolo: «Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla ... corro verso la mèta» (Fil 3,12-13).