Suor Lucia Bortolomasi e la missione in Mongolia: "assistere al miracolo continuo della Grazia"

16 giugno 2021

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Suor Lucia Bortolomasi è nata a Susa in provincia di Torino nel 1965: la sua famiglia è composta dai genitori cha da poco hanno celebrato 60 anni di matrimonio, da un fratello maggiore e da uno minore  che il Signore ha chiamato a sé quando appena aveva compiuto 8 mesi.

Suor Lucia è diventata suora missionaria della Consolata a 25 anni. Dopo aver svolto un servizio nell’animazione missionaria nel nord d’Italia, ha vissuto per 14 anni in Mongolia e ora si trova a Nepi (VT), nella Casa Generalizia dove svolge un servizio nella Direzione generale dell’Istituto.

Suor Lucia partiamo dal principio: come e quando si è manifestata la tua vocazione alla vita religiosa?

Dopo aver finito di studiare e mentre lavoravo in una scuola materna, il mio tempo libero lo spendevo in vari servizi in Parrocchia con il gruppo giovanile e in altre mille attività. Sentivo dentro di me il desiderio di donarmi agli altri, sperimentavo che avevo ricevuto tanto da Dio, una famiglia che mi voleva bene, la possibilità di aver studiato, trovato lavoro, un sacco di amici con cui condividevo gli stessi interessi, amavo fare sport, insomma, avevo tutto dalla vita ero veramente felice della vita, ma continuavo a sperimentare dentro di me che tutto questo non mi bastava… mi sono chiesta in che modo potevo dare un senso vero alla mia vita. Il Signore ha messo accanto a me persone che mi hanno aiutato a riflettere, pregare e scoprire che forse Dio non voleva le mille cose che continuavo a fare ma desiderava il dono della mia vita spesa per Lui e per gli altri. 

Perché proprio Missionaria della Consolata?

Nel mio paese c’erano i Missionari della Consolata, con il gruppo giovanile facevamo tante attività con loro e avevo sperimentato il loro entusiasmo per la missione, nell’andare verso popoli che non avevano mai conosciuto il Signore.  Questa loro gioia mi aveva questionato nel pensare che anch’io avrei potuto partire e annunciare questo Dio che è venuto per tutti. Nel frattempo avevo conosciuto una suora missionaria della Consolata di ritorno dal Tanzania e dopo poco tempo è morta e subito mi sono detta andrò io al suo posto ad essere Missionaria della Consolata e dopo pochi mesi sono entrata nell’Istituto.

Tu parti come missionaria alla volta della Mongolia e fondi insieme ad altre consorelle e confratelli la prima missione della tua Congregazione in questo Paese asiatico. Quando è avvenuta la fondazione, quanti eravate, dove vivevate?

Quella di partecipare all’apertura di una nuova missione è indubbiamente una grazia, un dono gratuito. Così l’abbiamo sperimentata quando nel 2003 abbiamo raggiunto la Mongolia, missionarie e missionari della Consolata, insieme per un nuovo inizio. Dopo alcuni mesi di conoscenza e di preparazione nell’estate del 2003, in tre missionarie e due missionari siamo partiti per Ulaanbaatar. Forte senso di dipendere completamente dalla Provvidenza: pochi giorni prima di arrivare non sapevamo ancora dove saremmo andate ad abitare.

All’arrivo un’accoglienza fraterna da parte della piccola comunità missionaria della Mongolia; ma anche il sentirsi da subito catapultati in un mondo completamente diverso, di cui non avevamo le coordinate per decifrarlo. E così ci siamo immerse nella nuova realtà, fidandoci di Dio e contando su una vera fraternità, tanta riflessione insieme e altrettanta preghiera, per sostenere il discernimento che s’imponeva ogni giorno.

 

Possiamo ripercorrere insieme a grandi linee gli inizi di quel percorso di fondazione: quali le difficoltà ma anche le sorprese dell'inizio?

Il primo passo, è stato lo studio della lingua. Per noi questo ha significato spendere tre anni interi sui banchi di scuola, ritornando bambini e versando lacrime da adulti, vista la complessità della lingua mongola. Per ricordarti che sei una straniera non c’è bisogno di fare uno sforzo: la realtà ad ogni passo ti butta in faccia questa realtà e ti accorgi che solo la bontà di questa gente ci permette di vivere nel loro Paese. Internet nei primi anni era un miraggio, abbiamo sperimentato molto la lontananza dei nostri parenti e amici. Forse però è stato un aiuto a cercare di costruire rapporti di vera fraternità tra di noi, nel riscoprire un Dio vicino, presente, che guida e dona forza alla tua vita. La Mongolia ci ha obbligati a confrontarci costantemente con noi stessi. Tutto questo è stato faticoso da vivere ma una grazia che ha cambiato e arricchito le nostre vite. 

Poco alla volta, entri in quella cultura, cominci a riconoscerne i valori fondamentali e questo ti dà la forza di continuare a rimanere. Scopri che la missione è gratuità, impari che solo l’amore di Dio ti fa stare in quel posto e che è normale che sia così, altrimenti cominceresti a pensare di essere tu protagonista. E invece no ed è una grazia: i Mongoli vivevano benissimo anche prima del tuo arrivo e continueranno a farlo dopo che te ne sarai andata o avrai donato la vita nella loro terra, ma lo Spirito vuole servirsi anche di te, con tutto il carico di fragilità che ti porti appresso, per manifestare il volto misericordioso di Dio. Siamo abituati a pensare la missione in termini di fare-fare; la realtà della Mongolia c’insegna che ciò che importante è esserci, essere presente in mezzo a quel popolo. 

 

Com' è stato accolto il primo "annuncio"?

Diventare cristiani in un Paese buddista non è facile. Quanto meno non è per nulla scontato, anzi rappresenta spesso un motivo d’isolamento sociale. Proprio dalla testimonianza di queste persone noi missionarie ci sentiamo arricchite ed aiutate a crescere nella sequela di Cristo. Accompagnare la fede sorgiva delle persone che stanno facendo questo cammino richiede da noi la massima serietà e profondità, è un’esperienza unica, è un dono strettamente legato alla vocazione ad gentes. È assistere al miracolo continuo della Grazia. Ogni giorno ci si accorge che la missione è di Dio, che è Lui che tocca i cuori e che noi siamo semplici strumenti nelle sue mani. 

Un incontro, una persona, un viso che ti è rimasto impresso.

Ho impresso nel mio cuore tanti volti, tanti incontri, ma vorrei raccontarvi la storia di Oghi, una delle prime donne che ho incontrato quando sono arrivata in Mongolia. Una donna che a causa di una medicina che la sua mamma prese durante la gravidanza è nata senza mani e senza gambe. Una donna coraggiosa, intraprendente, che non si è mai chiusa in se stessa, ma ha fatto della sua vita un dono per gli altri. Con una determinazione fuori dal comune, è riuscita a rendersi indipendente: vive da sola ed è in grado di compiere praticamente tutte le azioni quotidiane di una qualsiasi persona, pur avendo solo due moncherini al posto delle mani e protesi invece delle gambe. Ha accolto la fede in Cristo con grande entusiasmo, come un’esperienza di libertà ancora più profonda, quella di sentirsi figlia amata di Dio. E la sua preghiera trabocca sempre di lode e ringraziamento per il dono della vita.

Oggi la missione in Mongolia continua e proprio un vostro confratello, padre Giorgio Marengo, anche lui pioniere di questa missione, è ora Vescovo in questo Paese: quanti siete ora e come siete strutturati?

La missione in Mongolia procede con entusiasmo, sono presenti quattro missionari e sette missionarie suddivise in due presenze, una in capitale, a nord della grande periferia urbana, in un quartiere abbastanza difficile per problematiche sociali ed emarginazione, dove si svolge un servizio sociale; e una presenza ad Arvaiheer, a 400 Km dalla capitale dove si accompagna la piccola comunità cristiana e ci si impegna per un’umanizzazione integrale. 

Nel 2014 si sono mossi i primi passi nel campo del dialogo interreligioso a Kharkhorin, l’antica capitale dell’immenso impero mongolo, culla del Buddismo locale e luogo-simbolo della storia di questo Paese. Qui si stanno stringendo relazioni di amicizia e collaborazione con le autorità locali. Questi contatti hanno aperto le porte ad una presenza molto piccola e discreta, incentrata sul dialogo e sulla ricerca; oggi la “Casa dell’Amicizia” è un piccolo centro d’incontro e di scambio, dove non si ha ancora una comunità stabile, ma che ci permette di seguire diverse iniziative dalla non lontana Arvaiheer.

Siamo onorati che il Papa abbia nominato uno di noi, P. Giorgio Marengo, ad essere guida della piccola Chiesa in Mongolia e desideriamo con tutto il cuore fargli sentire la nostra vicinanza e la certezza che camminiamo con lui.

Suor Lucia, ti manca la Mongolia, pensi di fare ritorno prima o poi?

La Mongolia mi manca tantissimo, il vivere la missione in quella terra dal cielo blu per me è stato un bellissimo regalo di Dio, una grande ricchezza per la mia vita, per la quale non smetterò mai di ringraziare. Spero, terminati questi anni di servizio interno all’Istituto di poter tornare fra il popolo della Mongolia, che amo con tutto il mio cuore. E che mi ha aiutato a vivere le cose essenziali della vita e a lasciare tutto ciò che non è importante. Un proverbio mongolo lo dice in maniera molto poetica: “le nuvole passano, il cielo resta”.

Quale a tuo avviso è la sfida più urgente per un missionario/missionaria?

La missione vissuta in Mongolia mi ha segnato profondamente, mi ha scavato, scardinando le mie sicurezze umane per far più posto all’umiltà e alla Grazia. Credo che una delle sfide più urgenti per una missionaria sia quella di lasciarsi cambiare il cuore, di far cadere tutte le proprie certezze e lasciare spazio a Dio per poter avvicinare la gente con lo stesso amore con cui sperimentiamo di essere amati da Lui ed essere quella semplice piccola presenza di consolazione in mezzo al popolo a cui siamo mandati.