
Padre Alessandro Brai, missionario a Bangkok
Padre Alessandro Brai è missionario saveriano originario della Sardegna, di Palmas Arborea in provincia di Oristano, e da alcuni anni vive e opera in Thailandia.
Padre Alessandro, da quanto ti trovi a Bangkok? Quale il tuo impegno principale?
Mi trovo a Bangkok da circa cinque anni. Sono arrivato in Thailandia circa 8 anni fa. Dopo lo studio della lingua per un anno ho seguito i giovani lavoratori delle fabbriche e da cinque anni mi trovo nella più grande baraccopoli della capitale che comprende 44 quartieri, grandi come 44 cittadine. È una città nella città, non siamo distanti dai grandi alberghi e dai grattacieli del centro… Il mio impegno principale qui è quello di seguire, insieme ad altri confratelli, la formazione umana dei giovani e anche degli adulti. Nostro compito è la visita agli ammalati e ai poveri della baraccopoli. Accanto a questo, visitiamo i prigionieri nelle carceri e diamo formazione nei centri che accolgono i ragazzi, formazione umana e missionaria.
Quali sono i disagi, non solo materiali, con cui ti confronti quotidianamente?
Noi ci troviamo in una baraccopoli. Abbiamo deciso di stare al fianco dei suoi abitanti quindi abbiamo cercato un posto che fosse nella baraccopoli per cui ci sono quei disagi che possiamo immaginare facilmente: non è come stare in una struttura pensata per religiosi o preti con tutti i confort e con tante altre comodità che a volte sono necessari, se pensiamo ai preti anziani o a preti che devono prestare servizi particolari. Noi abbiamo fatto la scelta, essendo la nostra priorità i poveri della baraccopoli, di stare in una struttura semplice. Per il missionario la prima difficoltà è quella della lingua e dell’inserimento nella cultura. Uno potrebbe dirmi: sei qui in Thailandia da più di otto anni, dovresti aver già superato il problema… Invece no, perché la lingua e la cultura del posto sono completamente opposte alla nostra logica e al nostro modo di pensare per cui anche se arrivi al momento di poter parlare la lingua, non è scontato che ci si capisca. La cultura thailandese è assai distante dalla nostra per cui a volte si creano disagi e si creano incomprensioni soprattutto quando si tratta di aiutare le persone a affrontare le difficoltà. Il disagio più grande che affrontiamo qui è la difficoltà di cambiare la realtà per tanti motivi: c’è la povertà, a volte c’è la miseria, c’è il problema della corruzione, della droga, della prostituzione e c’è un grande disagio a livello familiare per cui per quanto si vedano progressi nell’aiuto a ragazzi, bambini, famiglie, a volte ti trovi impotente di fronte a situazioni che non puoi cambiare immediatamente ma che richiedono tempo. Un’altra difficoltà che incontriamo è la droga che rende il nostro operato molto più complicato. In questa realtà povera come quella in cui viviamo, la droga prende sempre più piede. Molti pensano che grazie alla droga si possano risolvere le difficoltà più facilmente e si possano fare soldi più facilmente, però alla fine si entra in un tunnel da cui è difficile uscire. Queste sono le difficoltà quotidiane, accanto agli insuccessi che dobbiamo accettare di fronte a situazioni di ragazzi e giovani che vogliamo aiutare.
La pandemia: cosa sta accadendo nei posti dove tu operi? Puoi raccontarci qual è la situazione attuale della gente?
Il virus ha colpito tutta la società nei diversi piani sociali, i poveri, la classe media e i ricchi, però chi più ne paga le conseguenze sono i poveri. Noi già aiutavamo a livello anche materiale molta gente ma con il Covid ci siamo dovuti attrezzare maggiormente perché la gente è senza lavoro e senza cibo da mesi e mesi e probabilmente questa situazione continuerà ancora, non sappiamo per quanto tempo. I più svantaggiati nella pandemia sono sempre gli ultimi, i più poveri, quelli che sono già in difficoltà. Grazie all’aiuto di tanti cristiani cattolici thailandesi e non, organizziamo distribuzione di cibo, mascherine e aiuti per i poveri, gli ammalati e quelli che sono soli.
Cosa significa per te essere missionario? Quali a tuo avviso le sfide della Missio ad gentes?
Bella domanda… io penso che oggi più che mai essere missionari significa condividere quotidianamente la vita con altri. Noi non lasciamo il nostro Paese per andare a insegnare qualcosa ad altri ma partiamo per condividere la nostra vita e naturalmente facendo ciò condividiamo ciò che è più importante nella nostra vita, cioè la fede in Gesù Cristo. E come si condivide? Questa è la sfida di oggi… lo facciamo attraverso il tempo che doniamo alla gente. Noi non siamo né esperti né tuttofare. Siamo persone come gli altri ma probabilmente quello che ci rende missionari è il fatto che noi dedichiamo il nostro tempo alle persone che serviamo indipendentemente dalla loro religione, cultura e stato sociale. Noi viviamo con loro, insieme a loro, cercando di valorizzare il bello e il buono che troviamo nella gente con cui viviamo. E c’è un’ immensità di cose belle e positive nelle persone che ci accolgono, anche nella baraccopoli, dove a primo impatto ciò che colpisce l’attenzione è certamente il lato negativo. Chiaramente, e questo ci viene dal Vangelo, dobbiamo privilegiare quelli che sono i privilegiati dal Vangelo, i poveri e gli ultimi, perché è attraverso questa testimonianza che possiamo annunciare l’amore di Gesù per tutti e quindi per gli ultimi. Credo che sia questa la sfida maggiore del missionario oggi, venire con l’intento di condividere, vivere con la gente, e quindi di condividere la propria fede, che è l’aspetto principale. Nella lingua thailandese c’è una parola per indicare il missionario – a volte si usa il termine inglese missionary - è una parola che significa ambasciatore della religione, della fede, dei valori. Mi piace molto questo modo di tradurre la parola missionario perché in un certo senso noi ci facciamo responsabili, anche se nessuno ci dà questa responsabilità come ambasciatori, di una missione che ci viene affidata da Cristo, la stessa missione che ha ricevuto dal Padre e che ha poi trasmesso ai discepoli e che è arrivata a noi per cui ci sentiamo responsabili di questa missione che non è nostra, non appartiene a me, alla mia congregazione, ma appartiene alla Chiesa. Credo quindi che il missionario sia questo, sentirsi responsabile dell’annuncio che siamo chiamati a fare in altre parti del mondo attraverso la condivisione della vita. Nelle realtà concrete il Signore ci indicherà le vie che dobbiamo utilizzare: può essere come noi nelle baraccopoli o come altri nei villaggi, altri ancora nell’insegnamento nelle scuole però tutti con l’intento di essere testimoni dell’amore di Dio. Ripensando all’enciclica del Papa “Fratelli tutti” una sfida attuale per noi missionari è quella di creare fraternità, di abbattere i muri che danno origine alla divisione, che impediscono una relazione di fraternità. Diventare costruttori di fraternità dove ci troviamo soprattutto nelle diversità, quindi la capacità di creare ponti e di abbattere i muri per creare quella fraternità di cui parla il Papa. Un’altra sfida è legata alla globalizzazione… anche in questa realtà che è prevalentemente buddista, lo constatiamo tutti i giorni. E’ per noi una grande sfida, in quanto stranieri, ma proprio perché stranieri a volte si riscontra il vantaggio che nasce dal confronto di mondi diversi, di collaborazione reciproca e di desiderio comune di crescere. Un’altra sfida che vedo molto attuale è legata all’egocentrismo. Anche nella società thailandese, come probabilmente in tutte, si è portati a concentrarsi sempre di più su se stessi. L’ego è il centro di tutto, ciò che rende difficile la fraternità e la relazione con gli altri. La sfida del missionario, attraverso la parola di Dio vissuta nella vita quotidiana, è aiutare la gente a uscire dal proprio io per andare incontro agli altri con uno spirito evangelico.